© 2000 by Gabriele Chiesa

I fotografi ottocenteschi certamente erano convinti di non fare nulla di eccezionale; il loro lavoro richiedeva un’abilità artigianale evoluta, ma l’Arte era un’altra cosa. Frequentemente erano pittori di second’ordine e scarso successo o ex miniaturisti che il nuovo modo di produrre ritratti aveva costretto a cambiar mestiere. L’aspirazione all’aureola di una dignità superiore veniva registrata sul retro delle immagini con I’espressione “Pittore Fotografo”. Artigiani si, ma…

Coloro che proprio non sapevano tenere un pennello in mano dovevano soffrire non poco dato che spesso non osavano neppure imprimere i loro nomi sui cartoncini.

Alcuni si dichiaravano fotografi-editori come felice Borri a Milano; addirittura editori -fotografi -geografi come Giovanni Battista Maggi a Torino; perfino fotografi-ebanisti-intagliatori come Giacomo Colombo di Abbiate Gazzone. G. Trainini di Brescia si pubblicizzava invece come fotografo-fisico-macchinista e gli attributi aggiunti erano forse i piu attinenti, date le implicazioni scientifiche della nuova tecnica che in Italia venne sperimentata originariamente proprio nelle Università ed Accademie dei vari Regni.

Il temine

I fotografi ottocenteschi certamente erano convinti di non fare nulla di eccezionale; il loro lavoro richiedeva un’abilità artigianale evoluta, ma l’Arte era un’altra cosa. Frequentemente erano pittori di second’ordine e scarso successo o ex miniaturisti che il nuovo modo di produrre ritratti aveva costretto a cambiar mestiere. L’aspirazione all’aureola di una dignità superiore veniva registrata sul retro delle immagini con I’espressione “Pittore Fotografo”. Artigiani si, ma…

Coloro che proprio non sapevano tenere un pennello in mano dovevano soffrire non poco dato che spesso non osavano neppure imprimere i loro nomi sui cartoncini.

Alcuni si dichiaravano fotografi-editori come felice Borri a Milano; addirittura editori -fotografi -geografi come Giovanni Battista Maggi a Torino; perfino fotografi-ebanisti-intagliatori come Giacomo Colombo di Abbiate Gazzone. G. Trainini di Brescia si pubblicizzava invece come fotografo-fisico-macchinista e gli attributi aggiunti erano forse i piu attinenti, date le implicazioni scientifiche della nuova tecnica che in Italia venne sperimentata originariamente proprio nelle Università ed Accademie dei vari Regni.

Il temine “fotografo” appariva insomma volentieri appoggiata ad un’altra qualifica che doveva servire per nobilitare o almeno sostenere la prima, quasi che fotografo solamente potesse essere degno di un semplice mestierante.

Eppure queste curiosità e poche altre cose ancora sono uno dei fragili appigli della ricerca fotografica storica di casa nostra; un’indagine da svolgere in larga parte leggendo quello che appare dietro alle cartes de visite.

Tutto sommato questi cartoncini costituiscono oggi una delle maggiori fonti di informazione per chi voglia condurre uno studio sulla fotografia dei primi decenni.

II supporto vero e proprio dello strato fotosensibile destinato a registrare i soggetti ripresi era un foglietto di carta piuttosto sensibile e fragile, un tale materiale non offriva alcuna garanzia di durata e veniva quindi invariabilmente montato su di un robusto rettangolo di cartone di dimensioni lievemente maggiori.

Nel 1851 Dodero pensò di adottare per questo cartoncino le dimensioni di un comune biglietto da visita; nacque così la carte de visite, destinata a dominare per mezzo secolo abbondante la scena dei consumo fotografico. II vero trionfo di questo formato fu però decretato da Adolphe Eugène Disdéri che pensò addirittura di brevettarlo (1854); egli diede una diffusione eccezionale a tali biglietti, diventati prestissimo un’obbligo mondano per tutta la Parigi-bene.

Ogni fotografo si allineò rapidamente alla richiesta commerciale e i negativi al collodio abbinati alla stampa all’albume si dimostrarono subito adatti alla produzione massiccia di queste fotografie. L’esplosione di popolarità che si manifestò nella sua pienezza a cavallo del 1860 rese definitivamente superate e sepolte la dagherrotipia e I’ambrotipia. Le cartes de visite erano realizzate con I’impiego di lastre al collodio (inizialmente collodio umido) di dimensioni tali da consentire di ottenere con lo stesso negativo otto riprese. La lastra veniva inserita in una macchina con quattro obiettivi che consentivano altrettante differenti pose o, se si desiderava, quattro immagini identiche di una stessa posa. Facendo scorrere il dorso era possibile impressionare I’altra metà del negativo ottenendo così le otto immagini di cui si parlava. La stampa era naturalmente ottenuta per contatto su di un foglio albuminato di adeguata misura che veniva poi ritagliato in modo che ogni fotografia potesse essere montata individualmente. I cartoncini di supporto potevano essere realizzati dal fotografo stesso ma presto si affermarono Ditte specializzate che provvedevano ad imprimere sul dorso disegni decorativi, motti o iscrizioni a scelta del committente; queste brevi frasi o una data vergata a penna costituiscono per alcuni autori le sole informazioni accessibili

Noè Vassena fotografo a Varese Qualche notizia storica è rimasta di coloro che riuscirono a fondare studi di dimensioni industriali o di quanti svilupparono il proprio lavoro verso indirizzi particolari, ma per la massa dei ritrattisti poco o nulla rimane. Dal punto di vista critico è quasi impossibile riuscire ad isolare il contributo che ciascuno apportò alla qualità espressiva delle riprese.

Mentre i pittori si guardano bene dal ricopiare gli schemi e i moduli dei colleghi, i fotografi hanno sempre cercato di adeguarsi alla domanda commerciale dei clienti piegandosi ad ogni moda che veniva ad affermarsi. Non è così possibile distinguere le peculiarità di un autore rispetto ad un altro se non da labili indizi che non permettono nessuna conclusione certa. Persino la presenza di certi elementi di arredo e di sfondo è talmente comune da non autorizzare deduzioni serie; essa consente invece di identificare, grosso modo, il periodo storico nel quale la fotografia fu ripresa perché proprio a quegli anni corrisponde la “moda” di quel tale accessorio di studio.

Anche gli indirizzi degli studi fotografici riportati dietro ai cartoncini sono un utile elemento di comparazione e forniscono prove di successioni, collaborazioni e attraverso le variazioni toponomastiche (nuovi nomi delle vie e piazze, particolarmente col procedere dell’unificazione politica dell’Italia) contribuiscono a fissare date attendibili. Per la ricostruzione della vita operativa di uno studio sono anche rilevanti i fregi relativi a decorazioni e premi che il fotografo è andato raccogliendo in mostre e concorsi, tali iscrizioni registrano spesso l’anno dell’avvenimento (ad esempio inciso nella figura della medaglia). Naturalmente i fotografi utilizzavano cartoncini che venivano riordinati al fornitore, terminata una partita, con gli aggiornamenti del caso.

Vittorio Besso fotografo a Biella I dorsi cartonati di ogni studio che abbia operato con continuità per un certo periodo di tempo sono perciò ben diversi tra di loro per la qualità e la quantità delle notizie e consentono a volte di stabilire alcuni punti fermi di riferimento storico. Questo genere di lavoro è però possibile solo su consistenti raccolte di immagini, con tutti problemi di accessibilità e di reperimento connessi. Ricerche basate su fonti ufficiali come gazzette, guide, annuari e registri pubblici sono state condotte per i fotografi di maggior rilievo ma ancora molto rimane da fare in questo campo.

Le conoscenze attuali si fondano largamente sul contributo di alcuni ricercatori come P. Becchetti, A. Gilardi, O. Reteuna, A. Schwarz, W. Settimelli, L. Vitali, I. Zannier… Altri ancora che avremo occasione di ricordare in seguito, hanno approfondito la conoscenza, specie a livello locale, di autori particolari. Manca invece un lavoro di rielaborazione unificante delle varie ricerche sui singoli fotografi che può giungere solo come somma e fusione delle diverse indagini ancora purtroppo ampiamente da completare.

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